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    Rav Malakhi HaCoen, tra la Cabbala e lo studio critico del Talmud

    Siamo a Livorno, che nel secolo XVIII era una delle Comunità più importanti di tutto il mondo ebraico, in particolare di quello sefardita. Qui visse un altro importante Talmudista e Cabbalista, il Rabbino Malachi HaCoen.

    Di questa figura se ne occuparono in passato i due Rabbini livornesi, Rav Alfredo Shabbetai Toaff e Rav Aldo Lattes, che  ancora Maschilim nel 1902 vinsero un concorso bandito dalla Fondazione Angelo Belimbau per una monografia sulla vita e le opere del Rabbino livornese Malachi Accoen. Il lavoro, rimasto manoscritto per sei anni dalla chiusura del concorso, vide la luce nel 1909. 

    Il XVIII secolo per Livorno rappresenta il secolo d’oro, l’apice della cultura rabbinica, halachika e cabbalistica, è qui che vive e insegna il Chidà,  Rav Chayim Yosef David Azulai (1724 – 1806), rabbino proveniente da Eretz Israel, una delle autorità ebraiche principali, soprattutto in campo di Halakhà e di Kabbalà. Intorno a lui si formò una schiera di rabbini livornesi che insieme a lui resero la città una vera Yerushalaim, centro di sapienza e nota in tutto il mondo per i suoi studiosi. Rav Azulai, con un gioco di parole su un’espressione della Tefillà, diceva “Ha-Qosht shenem asar” (il costo, uno degli ingredienti dell’incenso offerto nel Tempio, nella misura di 12), espressione che può essere interpretata anche come “la verità (della Torà) si esprime nei Dodici”, riferendosi ai dodici rabbini esemplari della Livorno di quegli anni. Nel Vessillo Israelitico del 1894 è riportato il testo di una conferenza che tenne rav Elia Benamozegh ai livornesi presso il Cimitero della Comunità sui grandi Rabbini della Comunità, la loro vita e le loro opere. Di questi, lo storico tedesco Heinrich Graetz, scrive che Malachi Hacoen era “l’ultimo esponente delle autorità rabbiniche italiane”.

    Rav Malachi Hacoen discendeva da una delle numerose e ragguardevoli famiglie spagnole che si erano stabilite a Livorno. Il padre Jacov Hacoen si era sposato con Benvenida di Malachi Montefoscoli, Rabbino di Livorno , che il nostro Malakhi nomina all’inizio della sua opera più importante, e da cui eredita il  nome. Il nonno fu scrittore e poeta, e di lui si conserva nell’archivio della Comunità livornese l’epigrafe scolpita sul suo sepolcro.

    Nacque il 22 tammuz corrispondente al 9 luglio del 1700, ultimo di tre fratelli; mentre i fratelli più grandi Moshe e David si dedicarono al commercio, Malakhi fin dall’infanzia intraprese gli studi religiosi, mostrando subito un ingegno spiccato.

    Ebbe per Maestri due fra i più valenti Rabbini della Comunità, il Rabbino Yosef Ergas (Livorno 1685-1730), noto studioso, ritualista e cabbalista, e Rav Avraham Chaim Rodriguez (morto nel 1735). Sotto la loro guida studiò la Bibbia, il Talmud e i Poseqim (Codici rituali), e, in particolare con il Rabbino Yosef Ergas, intraprese gli studi di cabbalà.

    Rav Ergas, autore di un libro di Responsa e di diverse opere di Kabbalà, era stato alunno di Rav Biniamin Hacoen, Rabbino di Reggio, che a sua volta aveva studiato presso Rabbi Moshe Zakhut, uno dei più importanti kabbalisti. Nel 1725 aveva già ottenuto – non sappiamo da quanti anni – il primo grado rabbinico, come si desume dai documenti conservati nell’Archivio della Comunità di Livorno. A Livorno era ormai conosciuto, ma anche nelle altre comunità iniziavano a conoscerlo come grande studioso. Nel 1722 e nel 1728 già scriveva, su richiesta del Maestro Rodriguez, due interessanti lettere a Rav Itzchaq Lampronti, autore dell’Enciclopedia talmudica ed halachika Pachad Itzchaq e celebre figura rabbinica italiana. Nella prima lettera discuteva fra l’altro su quale benedizione recitare sulla cioccolata. 

    Continuando negli studi, poco dopo i 31 anni ricevette meritatamente il titolo di Rabbino, conferitogli nell’adunanza del 1731 dai parnasim (massari) insieme al Rabbino  Jacov Lusena. Poco prima, nel 1730, era morto il rabbino Ergas, che aveva rivolto a lui le sue ultime parole, la sua benedizione e si era fatto promettere che si sarebbe preso cura dell’istruzione del suo figlio più piccolo, Avraham Ergas, di soli cinque anni; nonostante a quel tempo ci fossero altri rabbini più grandi, scelse il suo alunno, che considerò come suo successore. Lo abbracciò, lo baciò e esalò l’ultimo respiro. Poco prima il Rabbino Ergas aveva iniziato a riordinare i suoi scritti per la pubblicazione, e fu quindi il Rabbino Malachi haCoen ad occuparsene. Nel 1736 pubblicò ad Amsterdam le opere di Cabbala (Shomer emunim e Mevo petachim) a cui fece precedere una Haskama e un carme in suo onore. Nel 1742 pubblicò invece le Teshuvot  (Responsa Divre Yosèf).

    Appena ricevuto il titolo di Rabbino fu eletto nella commissione Issur Vehetter di Livorno assieme al rabbino Rodriguez  e all’amico Lusena, e a quest’ufficio rimase per quattordici anni ad intervalli fino alla morte; in questo modo si fece sempre più conoscere nel mondo rabbinico e letterario. Strinse amicizia con Rav Lampronti, che gli mandò il manoscritto del Pachad Itzchaq prima di pubblicarlo, e così con il rabbino Yeshayahu Bassan di Reggio.

    A 35 anni il 4 di sivan del 1735 si sposò con Rachel di Itzchaq e Palomba Servi, di famiglia rispettata, agiata e religiosa. Nel 1737 nacque il loro primo figlio Jacob, come il nonno, ma morì sventuratamente a soli tre mesi. Dopo quattro anni nacque il secondogenito Josef, in onore al Suo Maestro scomparso.

    Nel 1742 la città di Livorno fu colpita da una serie di terremoti terribili che portarono paura e scompiglio tra le persone, anche all’interno della Comunità ebraica: la sera del 12 di shevat, all’ora in cui le persone stavano per addormentarsi, il tempio si riempì di ebrei piangenti e preganti. Si sospesero i traffici, le botteghe non aprirono, molti si astennero da cibo, e i rabbini tenevano prediche nelle sinagoghe.  Il lunedì successivo fu fissato un digiuno pubblico, si recitarono le selichot e si suonò lo shofar. In mezzo a tutti fuggiaschi, Malachi haCoen dirigeva a cielo aperto le preci e infondeva coraggio con parole di conforto.

    L’8 di Aprile di quell’anno fu stabilito che ogni anno il 22 di shevat dovesse essere commemorato con digiuno e preci e fu dato l’incarico di compilare il formulario al “molto dotto e devoto sig. Haham Malachi Hacoen”.

    L’anno successivo pubblicò il Shivche Toda, gioiello di poesia liturgica. Scrisse un anno prima una magnifica poesia per l’inaugurazione del nuovo Hechal (Arca santa) nel Tempio Maggiore di Livorno e nel 1743 la Tefillà al Hacholim (Preghiera per gli ammalati) per un’epidemia che stava mietendo tante vittime a Livorno.

    Era anche copista e ricercatore di antiche e rare opere ebraiche manoscritte, che cercò di far pubblicare avvalendosi del sostegno dei fratelli David e Avraham Meldola. Era anche Sofèr, e sappiamo che scrisse un Sefer Torà. La sua opera principale fu il Yad Malakhi che nel 1758 era già completata e conosciuta tra i suoi colleghi rabbini, ma che fu pubblicata solo nel 1767. Un’opera di metodologia del Talmud e dei Codici rituali, dove vengono descritti i principi generali e la fraseologia del Talmud, con un vastissimo numero di esempi dal testo talmudico e da altre fonti; un testo che presuppone una conoscenza straordinaria del Talmud e dei suoi commentatori, dei Midrashim e dei Codici, e che fu frutto di venti anni circa di lavoro e di rifinitura. “Un aureo libriccino che vale una biblioteca”, come la chiamò rav Benamozegh. 

    Morì il 21 Heshwan 5532 (1771), pianto da tutti i suoi correligionari. I contemporanei che lo avevano conosciuto ricordavano che studiava di notte, e dedicava ogni momento della giornata allo studio. Il suo sepolcro si trova nel Cimitero in via del Corallo, semplicissimo in marmo. 

    Rav Benamozegh lo venerava, lo chiamava “gran santo, gran letterato, gran ritualista, gran critico” e andava nelle vigilie di Rosh Hashana e Kippur con i suoi alunni a pregare presso la sua tomba, recitando una preghiera che aveva composto appositamente per lui.

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