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    Riscrivere la storia dei ghetti

    Il 14 luglio del 1555, papa Paolo IV, eletto da meno di due mesi (23 maggio), pubblicò la bolla Cum nimis absurdum che, da quel momento in poi, avrebbe deciso la vita degli ebrei dello Stato della Chiesa (e di mezza Italia con loro) fino all’unità. Come tutti sanno, Carafa non si era inventato nulla: si era limitato a copiare un sistema di segregazione urbana che funzionava a Venezia da 40 anni, era già stato replicato con successo a Ragusa (oggi Dubrovnik) nel 1546 e prometteva di svolgere il suo compito anche a Roma e nei territori pontifici. Stabilire quale fosse quell’obiettivo e quali risultati abbia raggiunto sembra facile, ma non lo è affatto. Proprio perché si trattava di regolamentare la presenza della minoranza ebraica in seno alla maggioranza cristiana, la domanda e le sue risposte cambiano a seconda della prospettiva da cui si parte. Se lo scopo principale era facilitare le conversioni degli ebrei, è innegabile che, alla lunga, non fu centrato nonostante gli immani sforzi profusi: malgrado secoli di ghettizzazione, almeno un paio di migliaia di battesimi, sfortune, discriminazioni e umiliazioni, gli ebrei di Roma sono ancora qua e sono proprio i diretti discendenti di quelli che, appunto, decisero di restare ebrei.

     

    Negli ultimi anni, una stagione straordinaria di studi a livello internazionale ha riscritto la storia dei ghetti. Grazie a tanti lavori di scavo, fonti e domande nuovissime hanno permesso di portare alla luce la forza con cui le comunità seppero mantenere ferma l’identità di minoranza in un contesto ostile. In questo quadro, innumerevoli ricerche hanno dimostrato come le mura che per secoli divisero gli ebrei dai cristiani non abbiano potuto interrompere le relazioni tra gli uni e gli altri, che rimasero feconde per tutto il periodo attraverso i commerci, gli incontri e anche le occasioni di scontro. Interazioni, scambi e relazioni accompagnarono la quotidianità del ghetto e questo fu possibile proprio perché tutti conoscevano le regole del gioco. Per paradossale che sia, la discriminazione imposta sugli ebrei dall’esterno e modulata attraverso un ventaglio di limitazioni, stabiliva dei confini e dei comportamenti che, in qualche modo, rendevano possibile il contatto tra diversi: era chiaro chi fosse chi, a quali norme bisognasse sottostare e cosa facesse funzionare lo squilibrio di poteri e opportunità tra le parti. Gli ebrei sapevano di essere ebrei, confermavano quotidianamente la scelta di vivere nel ghetto, con tutte le sue conseguenze. Ma resta il fatto che queste conseguenze venivano imposte dall’esterno e non potevano essere eluse se non, per l’appunto, col battesimo.

    (Bolla papale che istituisce il Ghetto nel 1555 – Cortesia Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma)


    Le restrizioni celeberrime sulle professioni obbligarono a ripensare le tradizionali attività economiche e ridefinirono in profondità le gerarchie sociali del mondo ebraico. Da una parte, gli innumerevoli divieti, che culminarono con l’abolizione dei banchi di prestito nel 1682, spinsero a diversificare gli investimenti e a inventare nuove versioni di mestieri antichi; dall’altra, la pressione del proselitismo, la censura, il tentativo di isolare il ghetto dalle reti culturali ebraiche spinsero a trovare soluzioni alternative per far circolare testi e idee, su cui ancora sappiamo poco. Fatto sta che il mantenimento parziale dell’ebraico nella redazione dei documenti interni oggi all’ASCER, l’impegno incessante per la formazione ebraica dei giovani e per il sostegno ai poveri, la difesa continua della propria appartenenza altra ci raccontano, per l’appunto, le storie di chi scelse di restare all’interno di quelle mura. Oggi, gli oggetti meravigliosi esposti nel Museo Ebraico di Roma (e non solo) narrano materialmente quelle stesse storie: donare un addobbo o un argento a una Scola, significava rivendicare concretamente quelle scelte per sé, per la propria famiglia presente, passata e futura, consapevoli che altre, più facili, erano a disposizione e che si preferiva non percorrerle.  

     

    Serena Di Nepi insegna storia moderna presso Sapienza Università di Roma. Tra le sue pubblicazioni, Sopravvivere al ghetto. Per una aprirà sociale della comunità ebraica nella Roma del Cinquecento (Roma: Viella, 2013), di cui è appena uscita la traduzione inglese (Boston and Leiden: Brill, 2021)

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